L’ho detto e scritto un bel po’ di volte: per quello che rappresenta e per come è nata la sua candidatura, Franco Marini non era il presidente della Repubblica che avrei voluto. Se Marini fosse stato eletto saremmo stati sicuramente contestati e fortemente ridimensionati (per usare un eufemismo) alle prossime elezioni ma adesso avremmo ancora un partito.
Credo sia evidente a tutti che il problema non sono i nomi che sono stati messi in campo (se abbiamo bruciato Prodi non ce n’era veramente per nessuno). La questione vera è che ormai da tempo all’interno del Partito Democratico (ma forse anche da prima) si è perso il senso di come si sta assieme, di quali sono le regole che dovrebbero tenere unità una comunità di uomini e donne. La prima di queste regole non può che essere quella che a un certo punto, dopo aver discusso, essersi divisi, accapigliati, è necessario fare sintesi, decidere. Ed esiste un solo modo per farlo: votare in modo democratico. I luoghi per verificare la bontà o meno delle decisioni prese, dove mettere in discussione la dirigenza, decidere la linea politica si chiamano congressi (per la verifica interna) ed elezioni (per la verifica più larga).
Invece ogni occasione è buona per la conta o per affermare la propria idea (che ovviamente è sempre la migliore) costi quel costi. Quindi terreno di battaglia diventa l’elezione di un sindaco che se non è della mia “corrente” allora ci sta anche perdere le elezioni, i voti nei consigli comunali (e a tutti i livelli) dove non conta la discussione avvenuta nel gruppo di appartenenza (sempre che vi si partecipi) ma conta sempre e solo quello che penso io perché io sono il miglior interprete della “base” e di quello che pensa il popolo perché ho ricevuto tre “mi piace” sull’ultimo post che ho scritto in facebook, e diventa purtroppo campo di battaglia interna anche l’elezione del presidente della Repubblica e abbiamo visto a cosa ci ha portato.
Per inciso, la differenza tra i franchi tiratori e tra chi ha detto apertamente che avrebbe votato in maniera difforme alle decisioni prese è solo la codardia che contraddistingue i primi (e rileggendo le cose che ho scritto in questi giorni io forse mi sarei comportato, sbagliando, come i secondi).
Non mi interessa un partito dove decide uno solo e gli altri obbediscono.
Dobbiamo però ripensare a come si sta assieme, perché è chiaro che il gruppo dirigente “storico” ha chiuso la sua epoca (come ha detto qualcuno) ma, con queste premesse, il prossimo rischia di fare la stessa fine.
Concordo. In questi giorni la guerra fra bande del PD ha avvelenato un momento che doveva essere di altro profilo. E’ vero anche che ci sono i momenti istituzionali per le verifiche… Però non si può stare lì comunque quando – al di là dei congressi e delle assemblee – si fallisce nella gestione del partito, negli appuntamenti elettorali, nelle strategie dei momenti chiave. Sbagliamo tutti, no? Chi sbaglia lascia ad altri la possibilità di fare di meglio… Se invece ti aggrappi alla poltrona, per forza poi ti strappano via usando le brutte maniere.
Hai ragione…ma non penso sia stata una questione di conservare le poltrone: è stata l’ennesima resa dei conti senza esclusione di colpi e di regole.
E’ comunque sempre difficile capire al di fuori dei momenti istituzionali di verifica (nei quali si riesce a “interrogare” un discreto numero di persone) se si è fallito o meno.
Poi, come ho scritto, ci sono sempre quelli che sanno cosa vuole il popolo, ma quasi sempre lo confondono con quello che vogliono loro.
[…] convivere i diversi riformismi. Va però fatta chiarezza su COME si sta assieme (come ho scritto qui) e soprattutto per fare COSA si sta assieme. Si riparte solo chiarendo questi aspetti altrimenti […]