Nelle ultime settimane il Veneto ha visto il ripetersi di uno schema che dovrebbe essere ormai inaccettabile: nubifragi che sommergono città e coste, e la necessità di ricorrere a grandi opere per evitare il peggio. Dopo gli allagamenti del 21 agosto nella provincia di Venezia, Il 10 settembre un violento nubifragio ha colpito Bibione e la fascia costiera del Veneto orientale: in poche ore sono cadute piogge eccezionali — centinaia di millimetri in alcune stazioni — provocando allagamenti diffusi, attività commerciali, alberghi e garage invasi dall’acqua e la mobilitazione di vigili del fuoco, protezione civile e volontari locali. Nello stesso giorno è stata decisa la prima alzata stagionale del MOSE: le paratoie sono state sollevate per isolare la laguna da una marea prevista intorno ai 100–110 cm, evitando danni molto più estesi alla città storica di Venezia.

Questi due episodi non sono eventi separati: sono due facce dello stesso problema. Da un lato, fenomeni meteorologici più intensi e imprevedibili che colpiscono il territorio; dall’altro, la necessità di infrastrutture imponenti per difendere città e popolazioni. Ma adattarsi non equivale a risolvere la causa.

I numeri raccontano l’urgenza.

  • Negli ultimi anni la Regione ha moltiplicato le dichiarazioni di emergenza: dal 2017 a oggi le dichiarazioni di stato di crisi regionali legate ad eventi estremi sono state 44.

  • Nella sola finestra temporale 2020–2025 sono stati avviati 2.527 di cantieri per la sicurezza idraulica e la difesa del suolo (opere di laminazione, rinforzo arginale, regimazione idrica, interventi sulla costa) per mitigare i rischi legati a precipitazioni intense e al dissesto idrogeologico.

  • I centri di studio regionali e universitari segnalano che il Veneto potrebbe registrare entro fine secolo aumenti di temperatura dell’ordine di alcuni gradi (stime fino a +3/ +4 °C negli scenari peggiori) e un aumento significativo dell’intensità e della frequenza degli eventi estremi (anche dell’ordine del +30–50% per alcune classi di precipitazione estrema).

Questi investimenti — imprescindibili per salvare vite e patrimoni — sono quindi la risposta necessaria a una realtà resa più pericolosa dal cambiamento climatico. Ma hanno un limite intrinseco: sono reattivi e spesso frammentari. Si ripara l’argine dove è scoppiato il danno, si posa la pompa dove c’è l’allagamento, si alza il MOSE quando la marea minaccia Piazza San Marco. È utile, ma non sufficiente.

Il MOSE ha dimostrato, nelle sue attivazioni, di essere uno strumento efficace nel limitare gli effetti delle maree eccezionali: dall’entrata in funzione a regime il sistema è stato attivato 97 volte per proteggere la laguna e la città. Allo stesso tempo, i dati sul fenomeno delle acque alte mostrano una tendenza molto netta: il numero medio annuo di maree ≥80 cm (soglia di allerta per allagamenti) è passato da circa 75 all’anno intorno al 2000 a oltre 126 all’anno negli ultimi (nel solo 2024 ne sono stati registrati 219, un record storico). Questo significa che la pressione su infrastrutture come il MOSE aumenterà: non è pensabile usare una diga mobile come unica strategia, né è sostenibile pensare che basterà alzare paratoie sempre più spesso per risolvere il problema.

L’adattamento — cantieri, pompe, opere di difesa costiera, gestione delle acque — è vitale. Senza questi interventi i danni sarebbero molto più gravi e le vite messe a rischio. Ma l’adattamento è solo metà della risposta: mentre si costruiscono argini e si potenziano impianti, le emissioni globali e i modelli di sviluppo restano pressoché invariati. Finché non si riducono in modo serio le fonti di emissione e non si cambia il paradigma di produzione, trasporto e consumo, continueremo a pagare il conto con eventi sempre più distruttivi e costosi.

Le proiezioni degli istituti scientifici sono chiare: l’aumento delle temperature e la maggiore variabilità delle precipitazioni richiedono una doppia strategia — mitigazione delle cause (riduzione drastica di emissioni, decarbonizzazione dei trasporti e dell’economia) e adattamento intelligente e coordinato sul territorio. Fare solo l’una o solo l’altra è un grave errore politico e strategico.

È inaccettabile che, mentre i numeri e gli eventi parlano chiaro, esistano ancora posizioni politiche che minimizzano o negano la connessione tra crisi climatica e aumento degli eventi estremi. I negazionisti ostacolano scelte coerenti e alimentano ritardi che costano in vite e risorse.

La Regione Veneto ha la responsabilità primaria di coniugare protezione civile e politiche di lungo termine. Ma troppo spesso la sua azione è sembrata frammentata: molti cantieri, spesso indispensabili, non sono accompagnati da una strategia organica di riduzione delle emissioni, pianificazione territoriale integrata e transizione energetica. Non basta elencare cantieri e attivare stati di crisi: serve visione, programmazione e coraggio politico per cambiare rotta.

La retorica del “si fa quel che si può” non regge di fronte a scenari climatici che richiedono scelte coraggiose — dalla mobilità sostenibile alla tutela delle risorse idriche, dalla gestione del suolo alla ristrutturazione energetica degli edifici pubblici e privati. Se la Regione continuerà a vivere di emergenze, pagheremo sempre più spesso il conto.

I recenti nubifragi e la necessità di alzare il MOSE sono un monito: non possiamo più limitare la politica a riparare i guasti. Occorre un approccio sistemico che combini:

  1. investimenti strutturali di adattamento, pianificati e coordinati;

  2. politiche di mitigazione ambiziose che riducano le emissioni e promuovano modelli di sviluppo sostenibile;

  3. educazione civica e cambiamenti di stile di vita supportati da incentivi e infrastrutture;

  4. una Regione che non si limiti a dichiarare crisi, ma assuma il ruolo guida nella transizione.

La scelta è politica: continuare a tamponare o investire per un futuro diverso. Chi nega il nesso tra azioni umane e crisi climatica o chi si accontenta di soluzioni emergenziali rinvia il conto alle future generazioni. Per il Veneto, per Venezia e per tutti i nostri territori, questa scelta non è più rinviabile.

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