Il 9 ottobre 1963 la valle del Vajont fu travolta da una tragedia che ha segnato per sempre la nostra storia collettiva: circa duemila persone persero la vita quando una gigantesca frana dal Monte Toc, precipitata nella diga e nel bacino artificiale, generò un’onda distruttiva che travolse Longarone e altri paesi nelle vicinanze. La diga — uno dei manufatti più imponenti allora realizzati — rimase sostanzialmente intatta; eppure non fu questo a impedire la catastrofe. È un paradosso che va ricordato ogni anno: la tecnica da sola non basta, se alla progettazione non si accompagna ascolto, prudenza e onestà nel valutare i rischi.

Non si trattò di un «errore naturale» senza responsabili: già negli anni precedenti erano emerse avvisaglie e perplessità sulla stabilità del Monte Toc, segnalazioni che non vennero ascoltate o presero il giusto peso nelle decisioni politiche e aziendali. Il racconto del Vajont è anche il racconto di gerarchie che si fidarono più di modelli, interessi e rassicurazioni formali che della voce delle comunità e dei singoli testimoni che vedevano muoversi la montagna.

Questo porta a una riflessione più ampia: nemmeno la scienza e la tecnica sono infallibili. La scienza è un metodo — potente, autocorrettivo e progressivo — ma non è una garanzia di onniscienza immediata. La storia della conoscenza è piena di esempi in cui assunti largamente accettati sono stati successivamente confutati o ampliati da nuove evidenze. Questo non nega il valore della scienza, anzi lo ribadisce. La scienza è lo strumento più affidabile che abbiamo per capire il mondo, ma funziona quando è connessa a una cultura della responsabilità, dell’autocritica e dell’apertura. Quando tecnici e politici si arroccano dietro «certificazioni» o modelli e non si confrontano con chi vive il territorio, si crea un pericolo maggiore: non perché la scienza «sbagli» a priori, ma perché la sua applicazione pratica può essere distorta da omissioni, pressioni e da una sottovalutazione delle conoscenze locali e dei segnali di rischio emergenti.

Su questo punto Papa Francesco, nella sua enciclica Laudato Si’, ci offre una bussola etica: non si tratta solo di tecnicismi, ma di un’ecologia integrale che richiede ascolto delle comunità, processi partecipativi e decisioni che non siano imposte dall’alto senza legittimazione dal basso. La cura del creato richiede competenza e ragione, certo — ma anche umiltà, dialogo e attenzione alle vite concrete che vengono governate dalle scelte tecniche e politiche.

Ricordare il Vajont significa dunque tre cose insieme: onorare la memoria delle vite spezzate; riconoscere gli errori istituzionali e tecnici che hanno portato alla tragedia, perché la verità sia chiara; e infine trarre insegnamenti pratici per il futuro. La lezione più importante è forse questa: le grandi opere, i progetti tecnici ambiziosi e le politiche pubbliche devono sempre integrarsi con la conoscenza locale, con la partecipazione delle comunità interessate e con procedure trasparenti di valutazione e revisione. Solo così si può ridurre il rischio che il «tecnicismo» diventi copertura per arroganza o per interessi a discapito della vita.

A distanza di decenni, il Vajont resta un monito. Non possiamo — e non dobbiamo — lasciar cadere nella retorica reticente la responsabilità collettiva che quella notte ci ha mostrato in modo tragico il limite umano. Ricordare è un dovere: per le vittime, per i sopravvissuti, per le nuove generazioni. Ma ricordare è anche impegnarsi: affinché la scienza continui a progredire con rigore, e la politica a governare con umiltà e ascolto. Per far in modo che il «mai più» non resti una formula retorica, ma diventi pratica quotidiana di public governance e di cura reciproca.

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