L’arrivo delle Case della comunità rappresenta una scommessa importante per la sanità di prossimità: l’idea è semplice e ambiziosa insieme — portare servizi, cure e prevenzione più vicino alle persone, superando la separazione netta tra ospedale e territorio. Questo è quanto stabilito dal Decreto ministeriale n. 77, che definisce modelli e standard per la riorganizzazione dell’assistenza territoriale, e dal percorso di attuazione avviato dalla Regione con la DGR n. 721 del 22 giugno 2023. Le norme disegnano un modello in cui la Casa della comunità non è solo un edificio, ma un nodo operativo che integra medicina di base, specialistica ambulatoriale, infermieristica di comunità e servizi sociali.
Nel territorio metropolitano veneziano sono già ben visibili i cantieri e i progetti: da Mestre a Marghera, da Noale a Mira, si lavora per rispettare le scadenze (imposte anche dalle fonti di finanziamento, in particolare il PNRR). Tuttavia, la trasformazione organizzativa che queste strutture richiedono è molto più complessa della posa di mattoni e dell’allestimento degli spazi: senza un vero disegno di integrazione tra medici di famiglia, specialisti ospedalieri e servizi distrettuali, il rischio è che la Casa della comunità diventi una versione elegante del poliambulatorio, con servizi frammentati e orari che non garantiscono continuità. Senza la realizzazione del modello organizzativo che la normativa prevede, la Casa della comunità rischia di rimanere una bella insegna su un edificio.
Una manifestazione chiara di quanto conti la questione del personale è arrivata dal Veneto orientale, dove la prospettiva di attivare il numero unico 116.117 per la continuità assistenziale ha provocato tensioni con i medici sul territorio. In alcune aree diversi professionisti hanno protocollato dimissioni collettive, lamentando condizioni che rendono difficile garantire il servizio con le modalità previste. È un segnale netto: la qualità e la sostenibilità dell’assistenza territoriale dipendono dalla disponibilità e dalle condizioni di lavoro dei medici e degli infermieri, non dalle targhe e dai cantieri.
È pertanto indispensabile che ULSS 3 e ULSS 4 rendano pubblici e verificabili i piani del personale che accompagneranno ogni Casa della comunità, che spieghino come verranno garantiti i turni, quali figure professionali saranno stabilmente presenti e con quali contratti. Non è accettabile che la creazione di nuove sedi impoverisca distretti o reparti ospedalieri, né che “la casa” sia garantita con formule provvisorie (un medico 12 ore + guardia medica 12 ore). Serve garanzia su numeri, professionalità e stabilità degli organici. Senza questo, gli annunci di apertura rischiano di trasformarsi in inaugurazioni di facciata, seguite da servizi scarsi o frammentati.
Altro punto caldo, e politicamente sensibile, è la collocazione delle strutture. A Venezia si è acceso un dibattito pubblico dopo la scelta di concentrare la Casa della comunità dell’isola all’interno dell’Ospedale Civile, col rischio concreto di concentrare nel sito ospedaliero funzioni che avrebbero dovuto invece favorire la prossimità. Le scelte di sede contano, perché condizionano accessibilità, identità del servizio e rapporto con la comunità.
In questo contesto la voce della società civile è cruciale. Esiste infatti una rete nazionale di organizzazioni che ha preso l’iniziativa per evitare che le Case della comunità vengano svuotate di significato: l’“Alleanza per le Case della Comunità”, promossa tra gli altri da ACLI, Forum Disuguaglianze e Diversità, Forum Terzo Settore, CNCA e altre realtà, mette al centro la partecipazione e la tutela di un modello che sia davvero orientato alla salute pubblica e alla coesione sociale. Coinvolgere fin da subito queste esperienze — il terzo settore, le reti dei cittadini, le associazioni di tutela — non è un vezzo ma è una condizione per costruire servizi che rispondano ai bisogni reali e siano radicati nel territorio.
La politica locale ha quindi una responsabilità precisa. Non si tratta di essere contrari agli investimenti — le risorse del PNRR e quelle regionali sono un’opportunità — ma di chiederne l’uso corretto: prima ancora di inaugurare sedi, bisogna garantire piani del personale chiari e pubblici, accordi vincolanti con la medicina generale che definiscano ruoli e orari, e percorsi di partecipazione con la comunità e il terzo settore. Le controversie recenti — dalle dimissioni protocollate dei medici del Veneto orientale alla polemica sulla Casa della comunità nell’Ospedale Civile di Venezia — dovrebbero convincere amministratori e dirigenti sanitari a mettere la sostanza prima dell’apparenza. Solo così le Case della comunità potranno diventare davvero luoghi di cura, prevenzione e vicinanza, e non soltanto targhe e inaugurazioni.
