Negli anni Settanta Franco Basaglia guidò una delle rivoluzioni più importanti nella storia della psichiatria: smontare il paradigma manicomiale, restituire dignità alle persone con disturbi mentali e spostare l’attenzione dal controllo alla cura nella comunità. Il processo avviato a Gorizia e poi a Trieste si tradusse nel riconoscimento politico e giuridico di un nuovo modello: la Legge 13 maggio 1978, n. 180 (nota come “Legge Basaglia”), che ridefinì gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori e pose le basi per la chiusura degli ospedali psichiatrici come luogo di esclusione e custodia. La legge, assieme al movimento che l’ha resa possibile, non era solo un insieme di norme ma era una scelta di civiltà che collegava presa in carico territoriale, riabilitazione sociale e diritti fondamentali.

Oggi il disegno di legge S.1179 a prima firma del senatore di Fratelli d’Italia Francesco Zaffini («Disposizioni in materia di tutela della salute mentale») è all’esame del Parlamento. Questo testo contiene disposizioni che — se approvate così come sono — segnerebbero un significativo spostamento di paradigma rispetto all’impianto basagliano.

Innanzitutto il DDL prevede che il Trattamento Sanitario Obbligatorio (TSO) abbia una durata massima di quindici giorni (contro l’attuale gestione che ruota intorno a sette giorni), ulteriormente prolungabili per «effettive esigenze cliniche». L’allungamento della finestra temporale del TSO non è un dettaglio tecnico: significa più tempo in cui una persona può essere privata della libertà sulla base di una decisione sanitaria, con tutte le ricadute sul piano della tutela dei diritti individuali e della relazione terapeutica. Un sistema che formalizza periodi più lunghi di coercizione rischia di normalizzare l’uso del TSO invece di investire nelle alternative volontarie e territoriali.

Il testo inoltre codifica procedure di accertamento sanitario obbligatorio (ASO) e richiede che i Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) prevedano “strutture idonee” per l’osservazione clinica, estendendo la funzione dei servizi ospedalieri (SPDC). Questo si colloca in tensione con la lezione basagliana che privilegia la presa in carico territoriale e la deistituzionalizzazione: mettere per legge più sedi di osservazione e degenza senza piani incisivi di rafforzamento del territorio significa di fatto ritornare a soluzioni centrali e custodiali, quando invece il problema reale in molte regioni è proprio la fragilità e la frammentazione dei servizi di comunità.

In più il disegno di legge indica un limite massimo di capienza delle REMS (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza ) portato a 25 posti letto (dove la normativa precedente e la prassi tendevano a fissare soglie inferiori). Aumentare la capienza significa aumentare la dimensione delle strutture destinate alle misure di sicurezza psichiatrica: un’operazione che, nella migliore delle ipotesi, appare come risposta al problema senza risolverlo, e nella peggiore come nuova normalizzazione di spazi più estesi di segregazione sanitaria.

A questo va aggiunto che il DDL prevede la realizzazione di sezioni psichiatriche specialistiche all’interno degli istituti penitenziari, con posti non inferiori al 3% della popolazione detenuta. Applicando il tasso ai numeri recenti (poco più di 62.000 detenuti secondo i rapporti più aggiornati), si ottiene una capacità dell’ordine di circa 1.800 posti nelle sezioni psichiatriche interne. Quel che manca nel ragionamento politico è la domanda: spostare cure e TSO dentro il circuito penitenziario risolve i problemi di salute mentale o li complica trasformando il carcere in luogo sanitario di fatto? I dati di sovraffollamento e le condizioni delle carceri italiane mostrano che il contesto non è quello adatto a una cura degna: sovraffollamento, scarsità di risorse e tassi elevati di disagio psichico richiedono risposte fuori dal perimetro carcerario, non il suo ampliamento.

Infine il DDL disciplina e formalizza misure coattive purché motivate da “documentate necessità cliniche” e adottate secondo protocolli. Inoltre, prevede che il Ministero dell’Interno e il Ministero della Giustizia possano adottare, sentito il Ministro della Salute, misure di sicurezza in tempi rapidi (entro 90 giorni): un meccanismo che introduce soggetti della sicurezza pubblica nel perimetro decisionale della salute mentale. Il risultato pratico è evidente: una progressiva securizzazione della salute mentale, con standard che privilegiano controllo e ordine più che cura e diritti.

La riforma basagliana implicò un cambio culturale che mise al centro la persona, la comunità e la responsabilità sociale. Le misure del DDL — sommate — non sono neutrali: aumentano gli strumenti di controllo, rafforzano circuiti ospedalieri e penitenziari e danno ordine di priorità alla sicurezza. Questa concatenazione produce esattamente la percezione di una “nostalgia dell’istituzione”: non perché si dichiari il ritorno al manicomio, ma perché si costruiscono dispositivi che, di fatto, rendono più facile la custodia rispetto alla cura. Hanno quindi ragione le associazioni di settore, storici e clinici basagliani (tra cui la voce autorevole di professioniste come Giovanna Del Giudice) ad essere fortemente preoccupati.

Se l’obiettivo dichiarato è la tutela della salute mentale e la sicurezza, le strade alternative sono chiare e già segnate dall’esperienza: potenziare i servizi territoriali (DSM, Centri di Salute Mentale, servizi per le dipendenze), investire in housing sociale e in percorsi di lavoro e inclusione, stabilire protocolli che riducano al minimo ogni misura coattiva e rafforzare la formazione degli operatori. Spostare risorse verso l’aumento di posti in strutture chiuse o verso meccanismi di sorveglianza non risolve la radice del problema — e rischia di produrre effetti perversi a medio-lungo termine: stigmatizzazione, cronicizzazione e aumento dei conflitti tra persone in trattamento, operatori e comunità.

La legge Basaglia è una conquista civile perché ha messo insieme diritti, servizi e cittadinanza; smantellarla — o svuotarla di sostanza — non è un problema tecnico: è una scelta di società. Il DDL Zaffini contiene dispositivi che de facto spostano l’asse dalla cura alla custodia e dalla comunità alla sicurezza. Prima di approvarli, il Parlamento dovrebbe chiedersi non solo se le norme siano legittime giuridicamente, ma anche se siano coerenti con la storia morale che il nostro paese si è dato in tema di salute mentale e se davvero, di fronte a un’emergenza di servizi, la risposta più umana e efficace sia costruire più muri o rafforzare la rete sociale.

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